Monte Arera: quando grotte e miniere si fondono in un’unica speleologia
Il monte Arera, nella Lombardia Centrale, è il massiccio principale di una piccola catena montuosa ricca di fenomeni carsici. La zona non è molto distante dall’area della Grigna settentrionale ed ha in comune con essa l’ossatura principale, costituita dal calcare di Esino. Gli attuali risultati speleologici non sono ancora allo stesso livello, anche se il potenziale sarebbe superiore. Un sistematico lavoro ventennale di ricerca ha comunque portato risultati notevoli, ed ha aperto prospettive ancora più allettanti.
di Elisa Carminati e Giorgio Pannuzzo – articolo completo sulla rivista
Note storiche sull’attività estrattiva nei dintorni di Gorno
Il distretto minerario di Gorno comprende i giacimenti della val del Riso e quelli della val Parina, in una fascia che congiunge da Est a Ovest le Valli Brembana e Seriana.
I principali minerali presenti sono: calamina (zinco), blenda (zinco-zolfo), galena (piombo-argento) e, nella zona di Dossena, fluorite e barite.
Lo zinco è stato la materia prima di gran lunga più importante, soprattutto da quando è stato perfezionato il procedimento di zincatura in funzione protettiva contro l’ossidazione del ferro e dell’acciaio.
Sembra certo che già nell’antichità l’attività mineraria fosse esercitata stabilmente, ma si ritiene che la calamina fosse considerata una specie di additivo da aggiungere al rame per ricavare ottone, usato principalmente per fabbricare stoviglie. Probabilmente, l’estrazione era inizialmente limitata a pochi filoni, facilmente accessibili, localizzati nei dintorni di Gorno.
Solo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i progressi tecnici portati dalla rivoluzione industriale permisero di impiegare massicciamente i minerali depositati nel sottosuolo di tutto il settore, inoltre si incrementò a dismisura l’efficienza delle tecnologie a disposizione per l’estrazione e il trasporto del materiale ottenuto.
Dalle antiche tecniche di foratura a mano con mazza e fioretto si arrivò ai perforatori pneumatici, i primordiali sistemi di demolizione della roccia tramite sbalzi di temperatura (riscaldamento con fuoco e immediato raffreddamento con acqua) furono sostituiti dalla polvere pirica prima e dalla dinamite poi. Il minerale estratto, prima trasportato a spalle da ragazzi e donne, cominciò a viaggiare su vagoncini trainati prima da animali e, infine, da potenti motori elettrici. Anche i trasporti all’esterno vennero affidati a moderni sistemi di teleferiche.
Tutto ciò cambiò radicalmente l’intera economia delle popolazioni locali e le loro abitudini, anche religiose (S. Barbara, patrona dei minatori, divenne oggetto di grande devozione).
La nuova fonte di reddito era però molto condizionata dalle brusche variazioni del prezzo dello zinco e degli altri prodotti minerari, anche l’esaurimento di vene già sfruttate ed il ritrovamento di nuove vene, più o meno ricche, provocavano improvvisi alti e bassi nei livelli occupazionali o, addirittura, periodi di completa interruzione dei lavori.
Nella memoria dei fieri figli di questa terra traforata in tutte le direzioni si tramanda il ricordo delle grandi sfide industriali e finanziarie tra le maggiori compagnie che avevano le concessioni di estrazione: la Modigliani, la Crown Spelter Co. Ltd. (Inghilterra) e la Vieille Montagne (Belgio).
Dal dopoguerra in poi il gioco si era già ristretto ad un passaggio di consegne tra società nazionali più o meno legate a capitali pubblici; all’inizio degli anni ‘80 fu decisa la chiusura definitiva di tutti gli impianti di estrazione. Era stato appena trovato un ricchissimo filone di blenda e nessuno riusciva a spiegarsi i motivi che stavano dietro a tale decisione, questa è una ferita che resterà a lungo aperta nella memoria delle popolazioni coinvolte.
Un evidente segno di malafede fu visto nella scelta di disattivare le enormi pompe che svuotavano continuamente dall’acqua i livelli posti inferiormente al fondovalle del Riso senza prima mettere in salvo i preziosi macchinari che vi si trovavano, ormai è tutto annegato forse per sempre.
Per alcuni anni i valligiani hanno cercato di rifarsi in qualche modo aprendo gli ingressi murati delle gallerie esaurite per recuperare tonnellate di traversine e di altro materiale, ma ormai questa non si può più considerare una significativa fonte di reddito; c’è di buono che tutto ciò che è stato asportato viene riutilizzato e non lasciato in loco ad arrugginire e ad inquinare i corsi d’acqua che circolano numerosi tra gallerie artificiali e cavità carsiche incrociate dagli scavi.
Ormai è solo rimasto tra gli ex-minatori il rimpianto per un lavoro tanto duro e rischioso quanto amato ed un rassegnato orgoglio per le imponenti opere realizzate: il grande ribasso Riso-Parina lungo una dozzina di chilometri (per percorrerlo in breve tempo un minatore aveva montato un motore di Vespa su un carrello!) ed intercettato in val Vedra da un enorme fornello profondo 340 metri, le immense camere di coltivazione, i cantieri posti ad oltre 2000 metri di quota…
Oggi gli escursionisti girano spensierati sui prati dell’Arera, spesso senza nemmeno supporre che dove adesso ci sono sentieri e impianti di risalita dismessi, un tempo c’erano teleferiche che trasportavano migliaia di tonnellate di minerale; spesso appena pochi metri sotto i loro scarponi ci sono decine di chilometri di gallerie abbandonate.
Le discariche di materiale sterile sono gli unici segni visibili che permettono di immaginare le incredibili storie di fatica e di incidenti talvolta tragici che la montagna ha vissuto nel suo ventre.
Solo negli ultimi mesi sta prendendo corpo l’ipotesi di riattivare le miniere della zona, grazie all’interesse di una compagnia australiana che sembra seriamente convinta della loro redditività, in previsione di un possibile rincaro dello zinco. Vedremo in futuro cosa succederà.